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Originariamente la nozione religiosa espressa dal termine sanscrito "karman" indicava un "rituale" o "atto religioso" correttamente eseguito. La Religione vedica era essenzialmente fondata sul sacrificio, occasione di scambio di doni tra gli Dei e gli uomini. In questa fase obiettivo del sacrificio era quello di ottenere vantaggi o beni terreni. Con l'avvio dei Brahmana, il sacrificio vedico progressivamente si razionalizza. Gli Dèi vengono ora perlopiù costretti dalle formule sacrificali (mantra) a rispondere necessariamente ai doni degli uomini. Il sacrificio vedico possiede qui una rispondenza automatica e necessaria. I sacrifici vengono ora officiati da una casta precisa e ben individuabile, i brahmani e quindi il proponente richiede la certezza del risultato. L'azione rituale del brahmano, qui denominata con il preciso termine di karman, acquisisce quindi il successo automatico se il rito viene eseguito in modo corretto, ma tale risultato viene proiettato sempre e comunque nel futuro. Il futuro del risultato sacrificale poteva dunque essere realizzato anche in quella vita prevista dopo la morte. L'uomo possedeva come un contenitore che raccoglieva le sue azioni religiose in vista del suo futuro. Karman nella prima cultura vedica è quindi solo l'atto religioso e corrisponde come nozione alla parole italiane che hanno la stessa radice indoeuropea: creare, realizzare, ed ancora cerimonia come azione sacra |
In seguito Karma indicò, presso le religioni e le filosofie originarie dell'India, il generico agire volto a un fine, inteso come attivatore del principio di "causa-effetto", quella legge secondo la quale l'agire coinvolge gli esseri nella fruizione delle conseguenze che derivano dall'azione stessa (ma ogni causa produce un effetto ed ogni effetto sarà causa di un effetto ulteriore), vincolandoli così al samsara (ciclo infinito di morti e rinascite). |
Il concetto di karma è inscindibile da quelli di samsara (ciclo delle rinascite) e moksha (salvezza o liberazione dal ciclo delle rinascite, cioè il finale e definitivo abbandono della concezione materiale e mondana dell'ego, la perdita del legame della dualità, e il ristabilimento della propria natura fondamentale, sebbene tale natura sia vista come ineffabile e al di là del sensibile), sono le idee cardine di quella che è nota come "dottrina della rinascita". L'induismo, e in generale il pensiero indiano tutto, ruota attorno a questi concetti e alle vie che possono condurre alla liberazione dal ciclo delle rinascite. Per ottenere questa liberazione bisogna affrancarsi dal ciclo causa-effetto e quindi non produrre karma |
Al Karma è dedicato il terzo capitolo della Bhagavad Gita, nella quale si espone questa filosofia dell'azione disinteressata. Qui si afferma che tra azione ed inattività è preferibile l'azione, a patto che essa sia compiuta con distacco, perseguendo il proprio dovere o compito universale (Dharma) e non provando attaccamento o avversione verso i frutti delle proprie azioni, ma agendo soltanto in accettazione del proprio ruolo e al servizio della Divinità e dell'universo. In questo modo, l'azione non produce Karma poiché in effetti non si agisce affatto, ma si considera Dio l'unico autore delle proprie azioni; il corpo, i sensi, la mente, l'intelletto divengono così strumenti della Volontà Divina; questo abbandono, questa rinuncia a ritenere sé stessi autori dell'azione, porta il devoto ad una progressiva identificazione del proprio Sé limitato con il Sé illimitato, fino al conseguimento del Moksha (liberazione dal ciclo del samsara). Continua la spiegazione su Karma.pdf |